Mostra aperta il 28.10.67
alla Galleria d'arte San Diego.
Presentazione di Renzo guasco.
Questa è, secondo il mio gusto, una delle migliori
personali di Marius Russo. Una personale di soli disegni.
Disegni appena macchiati di colore: acquerelli o chine
colorata, verdi, azzurri, rossi, usati con la massima
libertà. Chi disegna si espone totalmente: non
può nascondere né le qualità, né
i difetti. Il disegno non ammette pentimenti, ripensamenti,
correzioni, così come non li ammette la pittura
ad acqua, tutta trasparente. Ogni modifica apportata dall'artista
al segno iniziale risulta palese. Nascono così
quei fogli emozionanti vere pagine di diario, autobiografie
senza reticenze sui quali è possibile seguire l'intero
percorso della fantasia creatrice (pensiamo a certi inchiostri
di Leonardo, di Rembrandt): immagini che si sdoppiano,
membra che si spostano. Ogni intuizione della fantasia
vi ha lasciato una traccia.
In occasione della mostra di Russo in questa stessa
galleria, all'inizio dello scorso anno, sottolineavo
sul catalogo "quel piglio, in ultima analisi festoso,
con cui egli affronta i complessi e difficili problemi
che una pittura che si vuole tanto intenzionalmente
carica di preoccupazioni intellettuali, sembrerebbe
dover celare o turbare". Mi sembra una constatazione
importante, ricordare ancor oggi, perché anche
questa mostra è iuna prova della fiducia nelle
possibilità della pittura; possibilità
che l'opera teorica di Russo (tutti sanno che è
autore di molti studi sulla storia e sul problema dell'arte)
sembrerebbe negare. In un periodo in cui si moltiplicano
con progressione vertiginosa le edizioni d'arte, in
cui le città pullulano di nuove gallerie e in
cui non c'è più stazione climatica o proloco
che non si affretti ad istituire un nuovo premio di
pittura (e tutti ne siamo più o meno responsabili!),
il grande pubblico non si rende certamente conto di
continuare (o di cominciare) ad occuparsi di cose totalmente
avulse (o, meglio, lasciate indietro) dalla civiltà
attuale.
Il fatto che molti pittori e scultori di questi ultimi
anni abbiano rinunciato ai mezzi tradizionali delle
loro arti per limitarsi a raccogliere ed a presentare
i rifiuti (dalle automobili sfasciate, alle bottigliette
della coca cola, ai manifesti strappati) della civiltà
industriale e del consumo, è qualcosa di più
di una trovata e certamente non è uno scherzo.
L'artista si rende conto che molte cose, e le più
importanti, oggi si fanno senza di lui. Nella civiltà
della tecnica non sa più che cosa dipingere,
non lo interessa più il dipingere.
L'arte dell' Occidente si era sempre ispirata ad una
"idea" del mondo superiore al mondo. L'opera
d'arte rappresentava per Fidia come per Raffaello ed
ancora per Ingres, non so se ancora per Cézanne
un mondo più ordinato di quello vero (o, meglio,
di quello visibile). L'arte era un ritorno all'Eden,
all'età dell'oro, alla lucidità della
ragione. Quando Leonardo proclamava la pittura "suprema
delle lingue e suprema delle scienze" aveva realmente
la coscienza egli, scienziato ed artista sommo, e con
lui l'avevano i maggiori artisti del Quattrocento, un
Piero della Francesca, un Antonello di ricapitolare
sulla tavola dipinta non solamente le teorie ed i gusti
estetici del momento, ma anche tutte le speculazioni
filosofiche e scientifiche, non come arida applicazione
di precetti (che Leonardo lasciò, da buon pittore,
nei suoi manoscritti), ma come effettiva partecipazione
ad un mondo che egli stesso contribuiva a creare.
Quando svanì l'idea di un mondo distinta dall'apparenza
del mondo, quando si disse: l'esperimento non è
la prova della verità, allora venne meno negli
artisti come una molla che si scarica la possibilità
di rappresentare il mondo visibile. A che scopo costruirsi
delle immagini di ciò che non sappiamo più
se è reale?
Marius Russo, in uno dei suoi saggi ("Le rivoluzioni
sbagliate") scrive: "E' possibile che la pittura
sia diventata più che mai insufficiente e inutile,
subito dopo lo scoppio di Hiroshima. Nell'agosto del
1945 un solco netto ed incolmabile si è aperto
fra il passato e l'avvenire dell'umanità. La
pittura appartiene al mondo di prima di Hiroshima"
Russo è un umanista, radicato all'humus della
civiltà mediterranea. Studioso di storia dell'arte,
estremamente sensibile a tutti i problemi del pensiero,
uomo preoccupato dell'avvenire dell'umanità,
di cui l'arte è lo specchio premonitore, egli
si rende conto con molto realismo che nulla di quello
che è stato e nulla di ciò che avverrà
potrà mai venir cancellato. Quando un dilemma
sembra insolubile, non vi è altra soluzione che
afferrarne decisamente i due corni. Se la scienza, se
Freud e Hiroshima hanno distrutto la pittura tradizionale,
non ci rimane che porre le basi di una nuova civiltà,
che sia nutrita di tutto il nostro passato, dalle incisioni
rupestri all'umanesimo al Settecento illuminista, ma
che comprenda Einstein e la bomba atomica e i satelliti
spaziali e quella che sarà la scienza di domani.
L'artista incolto, tutto affidato alla bravura istintiva
della mano e al gusto naturale, oggi è un non
senso. L'arte oggi può solo nascere, come fu
nelle sue grandi stagioni, dal cuore stesso della civiltà.
Questo può sembrare sproporzionato ad una mostra
di disegni lievemente colorati, piacevoli e festosi;
ma era necessario, non solo come testimonianza all'impegno
umano e civile dell'amico Russo, ma anche per gustare
appieno questi fogli nei quali trascorre in filigrana
e i visitatori più attenti, quelli che si portano
negli occhi i ricordi delle opere viste, ne gusteranno
tutto il sapore la vicenda di gran parte della pittura
moderna e di quella del nostro pittore.
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